Monte Testaccio a Roma

 

 

 

Monte Testaccio

o Monte dei Cocci come è familiarmente conosciuto a Roma, è una collina artificiale formatasi per l’accumulo progressivo delle anfore usate per l’importazione di olio dall’Africa e dalla Spagna che non potevano essere di nuovo usate in quanto degradate.

Monte Testaccio (Mons Testaceus) da testae, ovvero i cocci, era infatti una discarica specializzata usata dai Romani a partire dal periodo Augusteo per l’ordinato smaltimento di queste anfore che, non smaltate al loro interno, erano ormai degradate dai residui oleari e perciò non più riusabili.

I cocci

Per una questione igienica e per cercare di attenuare l’insopportabile lezzo che proveniva da questo enorme accumulo di anfore, i vari strati venivano trattati con la calce.

Questo trattamento ha contribuito a solidificare tutto il monte insieme all’ingegnosa tecnica di smaltimento in strati ordinati che permetteva di scalare il monte per aggiungere nuove anfore.

Le anfore di scarto, venivano infatti poste in fila coricate e sopra venivano rotte e riempite di cocci a formare un muretto molto stabile e resistente di circa 50 cm di altezza. Arrivati al limite dei 50/60 cm, si arretrava un po’ e si costruiva un nuovo analogo muro a costituire una sorta di terrazzamento fino alla sommità del Monte.

Le anfore provenivano dal vicino Porto fluviale del Tevere, l’Emporium che aveva sostituito alla fine del II secolo a.C., con le sue grandi banchine e i grandi horrea, il piccolo primitivo porto situato al Foro Boario in corrispondenza di quelli che oggi sono gli uffici dell’Anagrafe cittadina, il Portus Tiberinus, non ampliabile vista la vicinanza dei monti e dell’Area Sacra di S.Omobono e pertanto inadeguato al crescere dei commerci.

La zona dell’Emporium, oltretutto, era ideale data la vicinanza con la Via Ostiense che portava al porto di Ostia, era inoltre libera da edifici e non oppressa dai monti alle spalle come nel caso del vecchio Portus Tiberinus.

Oltre alla darsena con le banchine di attracco, l’Emporium, viene costruita la Porticus Aemilia (la cui destinazione è ancora incerta, tra ricovero per le navi militari, a via porticata che conduceva alla (Porta Trigemina), una serie di grandi magazzini per lo stoccaggio delle merci provenienti dal fiume (olio, grano, vino e marmi) e pronte per essere smistate, e il Forum Pistorium ovvero il mercato del pane.

Jumping wolf di Roa

Ci troviamo pertanto in un quartiere popolare molto importante fin dall’epoca di Traiano e qui avevano luogo anche molte delle feste tradizionali romane, medioevali ma anche rinascimentale e fino a tutto l’ottocento.

Questa vivace zona di servizi e di commerci, da dove passavano merci e cibo provenienti da tutto il Mediterraneo al servizio della Capitale dell’Impero, ancora oggi vede la continuità con questa tradizione, con la recente costruzione di un nuovo grande mercato che ha consentito di fare uno scavo archeologico dagli esiti straordinari, con il ritrovamento anche di mura costruite con i resti delle anfore scaricate nel porto fluviale.

Murale di Lucamaleonte

La vivacità del quartiere è testimoniata anche dai numerosi murali di famosi artisti della street art.

Superato l’ingresso per il Monte, dopo una ventina di metri, troviamo sulla destra due cartelli esplicativi, uno dei quali è dedicato a Heinrich Dressel uno studioso tedesco che per primo capì la natura di questo posto.

Pannello esplicativo con il riferimento a Dressel

Fino a quel momento erano fiorite svariate e fantasiose ipotesi sulla ragione e la natura di quell’enorme mucchio di anfore.

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Una delle ipotesi maggiormente in voga nel Medioevo, riteneva che quell’ammasso di anfore fosse la testimonianza eretta dal popolo romano dei tributi portati a Roma da tutto il mondo.

Porto di Traiano

Heinrich Dressel, allievo di Theodor Mommsen, alla fine dell’800 cominciò a studiare tutto quello che di scritto c’era a Roma, epigrafi etc., e, ovviamente anche le anfore del Monte Testaccio con le loro scritte. Con un importante lavoro di studio, creò un catalogo con la classificazione dei vari tipi di anfore usate a Roma, catalogo che è ancora usato dagli archeologi.

Le anfore di Monte Testaccio, le Dressel 20, sono anfore quasi tutte uguali di forma globulare dal peso di oltre 30 Kg a vuoto e potevano contenere 70 litri d’olio e provenivano dalla Betica, ovvero la moderna Andalusia, Spagna.

Le Dressel 20, con queste misure e peso, erano pressochè intrasportabili via terra, pertanto, una volta sbarcate dalle grandi navi onerarie che dalla Spagna le trasportavano al primo Porto di Ostia (dove forzatamente dovevano ormeggiare al largo) e, successivamente, ai più capienti Porti Imperiali, di Claudio e di Traiano,  le anfore venivano caricate sulle piccole caudicarie e trasportate a Roma, al Porto dell’Emporium con il sistema dell’alaggio, cioè trainate da buoi su una o ambedue le rive del fiume.

Il Monte dei Cocci

Entrando dal cancello d’ingresso posto in Via N. Zabaglia,24 , dopo aver percorso alcuni gradoni del viale cosparso di cocci che porta alla cima del monte, si vede sulla sinistra un edificio privato in restauro (un ristorante ricavato in una grotta alla base del monte) e sulla parete esterna si trova la targa che ricorda i due editti (1742-1744) emessi dal Papa Benedetto XIV che rappresentano la prima tutela di questo luogo archeologico. Vi si proibivano infatti i pascoli delle pecore e l’asportazione dei cocci che potevano minare la collina determinando dei crolli che avrebbero danneggiato le varie grotte scavate alla base e usate come magazzini.

Libero uso dei pascoli di Testaccio

Una lapide posta sulla Porta Ostiense (Porta S.Paolo) nel 1720 riconosceva invece l’uso pubblico dei prati di Testaccio con sacro Editto del Senato e del Popolo Romano secondo gli Statuti della Città.

Vialetto d’ingresso e in fondo il locale privato in ristrutturazione con la lapide degli editti papali.

I Romani, molto banalmente, sottraevano i cocci per riempire le buche delle strade malandate che anche in tempi antichi non mancavano a Roma.

Il Monte Testaccio è una collina artificiale alta circa 35 metri  (55 m. sul livello del mare), ha un diametro di Km 1,5 e una cubatura di 550.000 metri cubi (di materiale accumulato). Il calcolo delle anfore qui depositate ammonta a circa 25.000.000 di esemplari, cifra uscita da un accurato ricalcolo fatto negli ultimi anni, sempre ancora tantissime rispetto alla “vecchia” stima di 50.000.000,  considerando che il monte non è integro come in antichità, in parte per l’erosione e soprattutto per la mancanza di una parte considerevole.

Vista dalla sommità del monte: al centro si intravvedono le statue sulla facciata della Basilica di S.Giovanni. All’estrema destra si intravvede la guglia della Piramide di Caio Cestio.

Infatti il versante orientale del Monte è particolarmente danneggiato da grosse voragini perché alla fine del ‘500 veniva usato come bersaglio dai cannonieri di Castel S.Angelo che sparavano per esercitazione e, più tardi, nel 1849 (Assedio di Roma) quando prendevano di mira le truppe Francesi accampate vicino alla Basilica di S.Paolo fuori le Mura. Queste truppe avevano anche una postazione tra la base della vicina Piramide Cestia e la Porta S.Paolo (l’antica Porta Ostiensis).

Ansa di anfora con bollo

Tutte queste anfore costituiscono oggi una specie di archivio dei commerci di Roma in quel periodo in quanto esse hanno sulla loro superficie tutta una serie di preziose informazioni: dal bollo del costruttore sulle anse dell’anfora, a una serie di scritte a inchiostro ( tituli picti ) sulla superficie dell’anfora che segnalano il nome del mercante trasportatore, dello schiavo che aveva curato il carico, la data consolare, il peso della tara e il peso netto ed anche talvolta il nome del destinatario della spedizione.

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I bolli e le scritte si riferiscono a centinaia di costruttori di anfore e produttori di vino della valle del Guadalquivir, Andalusia o Betica come veniva chiamata dai Romani.

Nella mostra dei Severi (Roma Universalis. L’impero e la dinastia venuta dall’Africa)  che si tiene in questi giorni al Colosseo (dal 15 novembre 2018), ci sono esposte anche una serie di queste anfore con i bolli, considerato che proprio in quell’epoca venne raggiunto il massimo sviluppo del commercio marittimo di Roma.

Settimio Severo

Il nome antico del Monte Testaccio (se mai lo ha avuto) non lo conosciamo anche perché in effetti si trattava solo di una discarica.

In ogni caso il nome Testaccio appare per la prima volta in una epigrafe posta sotto il portico di S.Maria in Cosmedin al Foro Boario, di fronte al Tempio di Ercole Olivario.

Il Monte Testaccio dopo il periodo romano

Dall’età medioevale in poi la salita al monte veniva fatta a Pasqua da una solenne processione che partiva dal Campo Marzio e arrivava fino qui su questo monte che rappresentava un po’ il Golgota e saliva fino alla Croce posta sulla sommità.

Nel tempo l’aspetto sacro e devozionale tramonta per lasciare il posto alle feste pittoresche e ai giochi più crudeli del Carnevale Romano, come la Corsa della Ruzzica (“La Ruzzica de li porci”, ovvero il rotolamento dei porci) dove dei maialini o altri piccoli animali posti in carretti  venivano fatti precipitare giù per la collina fino alla base da dove partiva la successiva caccia alle povere bestie stordite o quel che ne restava che venivano catturate ed uccise dagli spadaccini dei vari rioni, e mangiate in feste conviviali per la gioia del popolino che di carne, all’epoca, ne mangiava poca.

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In seguito queste crudeli corse vennero riservate anche agli Ebrei (nella parte delle vittime) che magari non finanziavano adeguatamente queste feste, fino a che il Papa mise fine a questa barbara usanza.

Verso la metà del Quattrocento il Carnevale venne spostato a Via Lata, l’odierna Via del Corso ponendo fine a queste crudeli usanze ma comunque rimase sempre una festa sfrenata ad onta di severe proibizioni papali seguite anche talvolta da condanne a morte.

Il Monte Testaccio che si trovava ai margini della zona abitata, quasi in aperta campagna, era anche zona di scampagnate per i Romani in Autunno con le famose Ottobrate Romane.

Base della batteria antiaerea

Sulla cima del monte, vicino alla Croce ci sono le tracce in muratura di una base dove all’epoca della II Guerra Mondiale venne installata una postazione antiaerea.

La Croce sulla sommità risale ai primi anni dieci del secolo scorso forse soppiantando altre croci più antiche.

Monte Testaccio era delimitato nella parte meridionale dalle Mura Aureliane che, da qui in poi correvano in linea retta verso le sponde del Tevere con evidenti rifacimenti di varie epoche.

Mura Aureliane

 

Dalla sommità del Monte Testaccio si gode di una splendida vista di Roma che copre quasi 360 gradi, impedita a Nord solo dai vicini Gianicolo e Monteverde.

Immediatamente sotto al Monte Testaccio, si vede la grande struttura del Mattatoio (ex) ora adibito ad aule per la Facoltà di  Architettura di Roma Tre, e dove vi si tengono anche delle mostre. Ci sono due padiglioni nuovi, spazi riservati all’Accademia di Belle Arti di Via di Ripetta che nei vecchi locali aveva molti problemi di agibilità.

Questa era la zona industriale della Roma di fine 800 con ben visibile la vicina struttura tubolare del Gasometro, la Centrale Montemartini, ora Museo, la zona della vecchia Dogana fluviale e le costruzioni dove ancora resistono le stalle delle carrozzelle a cavalli.

Locali nelle grotte

Tutt’intorno al Monte Testaccio ci sono le grotte che appartenevano in gran parte al Papa ma anche a privati e dove venivano conservati i vini dei Castelli in quanto in queste grotte c’è una temperatura stabile di circa 10-12 gradi sia d’estate che d’inverno ideale per la conservazione del prezioso nettare.

Ora queste grotte sono occupate da officine di carrozzieri e meccanici d’auto, da tante Osterie con la cucina tradizionale romana e numerosi locali di tendenza della movida romana.

Il Monte dei Cocci è recintato e chiuso e viene aperto solo in occasione di visite guidate organizzate dalla Sovrintendenza Capitolina o da qualcuna delle numerose Associazioni che si occupano di visite archeologiche.

Per informazioni: www.sovraintendenzaroma.it

Lello

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Bibliografia:

F.Coarelli – Guide Archeologiche: Roma – Mondadori 2000

 

 

 

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